Bau: Mina, dacci ancora della Musica!
Finalmente ristabiliti nella nuova casa, dopo pochi ascolti
estemporanei e casuali (più che altro per provare il suono degli amplificatori)
e dopo essermi rimesso in pari con l’ascolto delle novità musicali uscite durante
questi mesi di black-out informatico (dovuto al trasloco), stamattina mi sono
concesso l’ascolto di un album di Mina per intero, e - chissà perché - ho
scelto Bau.
Forse l’ho intuitivamente scelto perché avevo un conto in sospeso con
questo disco - mai capito fino in fondo - o forse perché Mina lo ha inciso in
uno studio improvvisato, durante il suo di trasloco (dalla mitica via Monte
Generoso a via Ciani); fatto sta che Bau è un album che occupa una casella
abbastanza atipica nella Discografia di Mina, e perciò più difficile da
comprendere fino in fondo.
Se consideriamo gli album di inediti che lo precedono e lo seguono e tralasciamo
gli album di cover tematici (che fanno discografia a parte) possiamo osservare
che dopo l’alternanza di due album che possiamo definire Pop-Classico (Olio e
Bula Bula) e due album Elettro-Rock (Leggera) ed Elettro-Pop (Veleno), Bau
arriva come un episodio Blues decisamente a sé stante e disegnato con la stessa
caratterizzazione di un album di cover: con la volontà di realizzare un album
monotematico dai colori molto decisi. Anche qui la copertina è più che indicativa:
un vero e proprio manifesto programmatico.
Seguono Bau, nella Discografia degli album di inediti, la Trilogia
Elettronica (Facile smaccatamente Elettro-Blues, Caramella decisamente
Elettronico e Piccolino capolavoro Elettro-Rock) e il tristemente ultimo (prima
del salto quantico che chissà cosa ci riserverà) Selfie: album dalla
caratterizzazione fortemente cantautorale, il disco della Mina Cantautrice (nel
senso che la sua compattezza sia formale che di contenuti – per non tirare in
ballo la semantica – lascia la sensazione di aver ascoltato il disco di un
cantautore).
Bau apre con il suo manifesto programmatico: Mogol Battisti, che rivela l’intenzione di un disco fatto a due
mani, composto sull’onda emotiva del raffronto con la mitica coppia simbolo del
cantautorato italiano; Mina (cantautrice sempre) interpreta i versi di questa
canzone con una levigata e intensa leggerezza, e la sua voce diventa eterea nell’ultima
strofa, quasi a voler sottolineare (come nell’abbraccio tra le due voci nei
ritornelli) che i due protagonisti si parlano da piani esistenziali diversi
(lasciando Mingardi nel piano più terrestre), come a voler dire che un Amore
vero travalica i confini di questa vita e di questa dimensione spazio-temporale
per collocarsi nell’infinito, disciogliendo il concetto di morte (ripreso e
risolto in maniera ancor meno canonica nel finale dell’album).
La scrittura musicale di Andrea Mingardi lascia Mina libera di divertirsi
a caratterizzare in modo quantomai vario e apparentemente dispersivo i versi
dei vari pezzi del disco; si va dal delicatissimo humor letterario-citazionistico
di Johnny Scarpe Gialle (dove Mina
riesce a fare dei versi più bislacchi mai cantati da voce umana una storia
concreta, lavorando su lievissime sfumature e su intenzioni controllatissime)
alla stravagante Sull’Orient Express,
con la voce all’estremo opposto, spinta fino alla caricatura più violenta (a
sua volta caricata ancora di più dallo sdoppiamento della voce su due ottave
diverse lungo tutta la stesura del pezzo); andiamo dalla tristissima Nessun Altro Mai (dove la voce scende
in verità profondissime con dolore e amarezza, per salire poi fino a note
altissime, gridate con straziante asprezza) alla adolescenziale The End, dove Mina sfodera un’inedita
voce strafottente, divertita dai versi assolutamente inappropriati per
qualsiasi altra cantante sessantaseienne, che però lei riesce a rendere
credibili, in uno scanzonato ritorno a divertissement targati Italdisc.
Ancora atmosfere diverse per gli altri due pezzi di Mingardi: L’Amore Viene E Se Ne Va (classicissima
ballata il terzine che Mina interpreta con la sua voce ‘Minosa’, lucida e abbandonata alle emozioni allo stesso tempo) e Inevitabile (annoiata, svogliata,
pigra, fino al ritornello dove Mina torna a giocare con i fiati - rinverdendo i
fasti del clamoroso Live’72 – ottone tra gli ottoni, tromba, tra le trombe – clamorosi
quei suoi ‘stozzati’ alla fine di alcuni versi, quasi da sordina). Anche i
pezzi degli altri autori, però, ben si collocano in questo repertorio un po’
Rock’n’roll, alcuni come episodi a sé stanti (Per Poco Che Sia suona - alla fine del lato A - come la mitica Amorevole che tagliava decisamente in
due la scaletta di Baby Gate, e Mina la canta con profondissimo rispetto e con
quella voce lieve e dolcissima che solo lei sa fare), altri come conferma di
appartenenza (Un Uomo Che Mi Ama è l’unico
pezzo che ti saresti aspettato di trovare in un disco di Mina), altri ancora
come ulteriore digressione in un territorio mai esplorato (Come Te Lo Devo Dire è scioccante al primo ascolto, ma
contestualizzata nel suo giusto ambiente - un locale gay - e, compreso il senso
del testo e l’evoluzione finale che la rendono meno sgradevole di come appare,
diventa un’interessantissima chiusura-a-sparire - ricordando Piccolino
e il Dr.Roberto - in questo caso,
sparire, con l'espediente di collocarsi in una scena in cui immaginare Mina diventa quantomai improbabile).
La chiusura di questo album, Datemi
Della Musica, è l’evoluzione della sua apertura, ma Mina veste stavolta i
panni di Mingardi, confondendosi con lui, imitandone le sporcature, e
inserendosi perfettamente nell’arrangiamento blues-rock carico di fiati e
chitarre elettriche, fino a dissolversi nella lunga nota finale con cui lascia
tranquillamente Mingardi in scena a cantare da solo l’ultima strofa. Qui il protagonista
sparisce, dopo la sua morte fisica, trasformandosi in un atomo impazzito, ma
viene reintrodotto (non sappiamo con quale essenza)
nel “circuito misterioso della vita”,
chiedendo a gran voce ancora Musica, come tutti noi, che non possiamo fare a
meno di premere ancora il tasto Play per assaporare senza stancarci i mille
gusti di questo piccolo capolavoro incompreso.
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